Le cellule nervose, o neuroni, comunicano fra di loro nel cervello attraverso messaggeri chimici definiti neurotrasmettitori, i quali attivano specifici componenti cellulari macromolecolari di natura proteica, dette recettori. Gli effetti comportamentali delle sostanze d’abuso psicotrope sono la conseguenza delle loro interazioni con i recettori di differenti sistemi neurotrasmettitoriali che costituiscono i circuiti cerebrali di gratificazione. Un circuito può essere definito come un insieme di neuroni connessi tra loro il cui fine è attivare e coordinare pattern comportamentali finalizzati (Caretti & La Barbera, 2005). Ogni sostanza psicotropa agisce su diversi sistemi, producendo a sua volta effetti differenti; nello specifico:
· Il sistema per gli oppiodi contribuisce agli effetti positivi di rinforzo e di gratificazione della morfina e dei suoi derivati, quali l’eroina, come anche di quelli dell’alcol etilico e della nicotina;
· Il sistema serotoninergico contribuisce ad avviare l’insieme dei meccanismi attraverso i quali stimoli di diversa natura acquisiscono la capacità di indurre risposte motorie ed emozioni (motivational learing);
· Il sistema GABAergico, con la sua azione inibitoria nei riguardi dei sistemi neurali eccitatori, contribuisce all’instaurarsi della tolleranza e della dipendenza verso varie sostanze d’abuso psicotrope (in particolare nei riguardi dell’alcol etilico, dei barbiturici e delle benzodiazepine);
· La dopamina è un neurotrasmettitore e neuromodulatore dei neuroni di diverse regioni del cervello che giocano un ruolo significativo nella performance di comportamenti finalizzati in risposta a stimoli incentivanti.
Figura 1
Tra le aree cerebrali influenzate dai neuroni dopaminergici, il nucleo accumbens (il punto rosso evidenziato nella fig. 1) gioca un ruolo centrale. In particolare, con la sua regione definita shell, (indicato con Sh in fig.2) fa parte di strutture che sono implicate nella integrazione di emozioni, che provocano risposte motorie, vegetative e neurormonali. La regione definita core (indicato con C in fig. 2) fa invece parte di un’area del cervello coinvolta nell’integrazione di risposte motorie. I neuroni dopaminergici, oltre che il nucleo accumbens, raggiungono anche altre aree cerebrali, tra cui l’amigdala e l’ippocampo. Questa due strutture contribuiscono in maniera sostanziale al controllo dell’emozionalità, dell’effettività e dei processi cognitivi (Caretti & La Barbera, 2010).
La varietà degli effetti della dopamina sui comportamenti motivati è dovuta anche al diverso grado di risposta dei neuroni dopaminergici a due differenti tipi di stimoli motivazionali: l’appetitivo e il consumatorio. Gli stimoli appetitivi servono ad attrarre un individuo verso una ricompensa allo scopo di ottenerla. Gli stimoli consumatori sono utili, invece, a mantenere l’individuo in contatto con la ricompensa affinché possa usufruirne le proprietà biologiche necessarie per il sostentamento dell’organismo.
Figura 2
Le diverse modalità della trasmissione del segnale dopaminergico nel nucleo accumbens, in risposta a stimoli naturali, hanno un ruolo importante nel cosiddetto apprendimento motivazionale. Con tale termine si indica un processo mediante il quale uno stimolo neutro, se costantemente associato a una ricompensa, acquista la capacità di evocare risposte comportamentali motivate. «Così una luce, che si accende ogni volta che l’animale riceve cibo, acqua o sostanze d’abuso psicotrope, diventa uno stimolo motivazionale che lo induce a cercare il cibo, l’acqua o la sostanza» (Caretti & La Barbera, 2005).
Figura 3
La via dopaminergica mesolimbica (fig.3) rappresenta la via finale per il rinforzo e la gratificazione indotta da stimoli fisiologici o da sostanze d’abuso psicotrope. Diversi ricercatori definiscono la dopamina del circuito mesolimbico il neurotrasmettitore del “piacere”. Il rilascio di dopamina a livello dei neuroni mesolimbici è normalmente prodotto da un’ampia varietà di stimoli fisiologici gratificanti, quali quelli indotti da una buona prestazione intellettuale o atletica, dall’ascolto di musica gradevole, dalla visione di un panorama interessante, da un’esperienza orgasmica, da cibi gustosi, dal gioco d’azzardo, da Internet (ibidem). Il maggior rilascio di dopamina in queste circostanze rientra in un rangecompreso entro picchi fisiologici. I quanti di dopamina che si liberano dai neuroni dopaminergici, in seguito a stimoli ambientali, sono anche modulati dal contemporaneo rilascio di specifici neurotrasmettitori e neuromodulatori, tra cui le endorfine o «oppioidi endogeni», l’anandamide o «marijuana cerebrale», l’acetilcolina o «nicotina cerebrale». A livello fisiologico esiste un range ottimale, specifico per ciascun individuo, entro il quale la quantità di dopamina rilasciata e il livello di risposta dei recettori dopaminergici della formazione mesolimbica producono effetti gratificanti (ibidem).
Chiarito che esistono a livello omeostatico una serie di range e livelli che regolano in maniera funzionale l’attività dei ricettori, va considerato che la via dopaminergica mesolimbica, è attivata anche da un elevato numero di sostanze psicotrope e non solo quindi attraverso stimoli naturali. L’assunzione di tali sostanze conduce ad una gratificazione molto intensa e veloce, appunto per il rapido incremento di dopamina che si ha nel sistema mesolimbico. Riguardando, pertanto, meccanismi che caratterizzano la gratificazione è facile comprendere come sia repentino l’instaurarsi della dipendenza. Tuttavia, la possibilità che un individuo assuma sostanze d’abuso psicotrope e la probabilità di divenire tossicodipendente riguarda un’alterata funzionalità neuronale dovuta a fattori genetici o ambientali (Stahal, 2000). Per quanto riguarda i fattori genetici, «soggetti il cui sistema mesolimbico presenta un ridotto numero di recettori per la dopamina, o delle alterazioni qualitative di questi, percepiscono alla prima introduzione della sostanza psicotropa un effetto disinibente che diventa sempre più gratificante man mano che la dose aumenta. In tal caso, se sono presenti disturbi del comportamento, l’assunzione della sostanza, attraverso meccanismi di neuroadattamento recettoriale, può attenuare i sintomi psicofisici, predisponendo il soggetto a ripetere l’esperienza. Individui, invece, che non presentano alterazioni nel numero e nella funzione dei recettori per la dopamina percepiscono alla prima somministrazione della sostanza psicotropa sensazioni disforiche più o meno intense, che non lo indurranno a ripetere l’assunzione» (ibidem).
Si chiarirà ora, partendo dalla definizione dell’O.M.S., il concetto di dipendenza, descritto come «uno stato di disagio prodotto dall’acuta sottrazione di una sostanza chimica a un individuo cronicamente esposto a essa, condizione che può essere alleviata riprendendo l’introduzione della stessa sostanza d’abuso psicotropa o di un’altra provvista di azioni farmacologiche simili» (World Health Organization, 2019). La dipendenza è caratterizzata dalla presenza di specifici sintomi fisici e psichici di intensità variabile in rapporto alle caratteristiche della sostanza psicotropa, alla dose e alla durata del periodo di assunzione. Nella dipendenza alcune modificazioni neuroadattive possono divenire permanenti e causare intensi disturbi psicofisici che spingono a riprendere l’uso della sostanza.
In stretta correlazione con la dipendenza è possibile riscontrare la tolleranza. Il termine definisce una progressiva riduzione di diversi effetti, tra cui quelli gratificanti, in seguito a ripetuta esposizione alla stessa dose della sostanza o di un’altra strutturalmente simile. «I meccanismi con cui insorge la tolleranza sono di tre tipi: metabolico, funzionale e comportamentale. Del primo non si fa cenno, in quanto gioca un modesto ruolo nella tolleranza da sostanze d’abuso psicotrope. La comparsa della tolleranza funzionale, fenomeno caratteristico della cellula nervosa, è la conseguenza di una riduzione del numero e della sensibilità dei recettori neuronali sui quali la molecola agisce. La tolleranza comportamentale è caratterizzata da un progressivo adattamento dell’individuo agli effetti negativi psicofisici della sostanza» (Caretti & La Barbera, 2005).
Un’importante manifestazione della dipendenza, è il craving, che può essere definito come un’attrazione, d’intensità variabile, nei confronti di determinate sostanze psicotrope d’abuso. Quando è al disotto di una certa intensità, il craving rappresenta una condizione fisiologica comune alla maggior parte degli esseri umani. Se, invece, supera una certa soglia, acquista caratteristiche patologiche e, a elevati livelli di intensità, compaiono intense e gravi alterazioni psicofisiche che portano il soggetto a pensare unicamente alle sostanze da cui è attratto e ai mezzi con cui procurarsele (Gori & Müller, 1992).
Vi possono essere due tipi di craving:
1. il craving indotto in particolare da farmaci psicotropi stimolanti in grado di attivare i neuroni dopaminergici mesolimbici;
2. il craving stimolato da fattori ambientali quali, per esempio, strumenti o oggetti impiegati per assumere la sostanza d’abuso, polveri bianche, denaro, persone e luoghi associati all’assunzione della sostanza psicotropa.
Ambedue i tipi di craving “risvegliano” i circuiti neurali nei quali sono immagazzinate le memorie degli schemi comportamentali prodotti dalle sostanze d’abuso psicotrope (ibidem).
Continuando l’analisi qualitativa del concetto di dipendenza, vanno senza dubbio citati il rinforzo e il neuroadattamento. Il primo è un costrutto teorico secondo il quale uno stimolo incondizionato, quale la sostanza d’abuso stessa, oppure uno stimolo condizionato, come i luoghi dove le sostanze psicotrope sono state consumate o gli strumenti usati per la loro assunzione, determinando una condizione di euforia, favoriscono l’ulteriore consumo della sostanza d’abuso, e quindi lo sviluppo della dipendenza. Questo tipo di rinforzo è definito rinforzo positivo condizionato. L’esposizione a stimoli ambientali presenti durante l’astinenza può scatenare sintomi tipici della sindrome di astinenza, e in tal caso si ha il cosiddetto rinforzo condizionato negativo (Caretti & La Barbera, 2005). Con il termine neuroadattamento, invece, si definiscono i processi con cui gli effetti iniziali di una sostanza psicotropa sono sia potenziali (sensibilizzazione) sia attenuati (controadattamento) da ripetute esposizioni alla medesima sostanza. Attraverso il processo di adattamento, il neurone tende a normalizzare il suo livello di eccitabilità, modificato dall’assunzione cronica della sostanza psicotropa. Operando in sincronia, il rinforzo e il neuroadattamento regolano l’intensità della risposta acuta alla sostanza psicotropa e lo stabilirsi o meno del craving. (ibidem).
Definite le caratteristiche qualitative della dipendenza e come queste si declinano nella componente neurobiologica della persona affetta da dipendenza, si procederà ora con l’analisi del comportamento correlato all’ assunzione di sostanze. Vi è un’interconnessione tra tre macro dimensioni quella biologica, quella ambientale e quella psicologica (Vanyukov, et al., 2003). Queste si intersecano in maniera differente tra loro e/o hanno “pesi” diversi in ogni singolo individuo, producendo, conseguentemente, effetti differenti. Iniziando dalla componente biologica, è necessario introdurre il concetto di vulnerabilità che in ambito medico possiede una tradizione di studi che hanno permesso di identificare dei fattori di rischio la cui presenza comporta la possibilità (statistica) di sviluppare una patologia. La strutturazione del disturbo è l’esito di un lungo processo nell’ambito del quale i fattori di rischio sono stati maggiori dei fattori protettivi.
Questo tipo di approccio nella tossicodipendenza porta all’identificazione di fattori di rischio (Vanyukov, et al., 2003) la cui presenza comporta un rischio di uso di sostanze. La capacità di attivare comportamenti protettivi o a rischio da parte del soggetto, oscilla a seconda dell’influenza di vari fattori che possono risentire di situazioni contingenti non prevedibili in grado di condizionare dinamicamente tutto lo scenario comportamentale (Hermann, et al., 1980). Una delle chiavi di lettura che descrive la tossicodipendenza dal punto di vista biologico è il fatto che questa rappresenti una patologia della motivazione e della scelta. Se, come si è visto da una parte la dopamina è di cruciale importanza per la gratificazione acuta e l’iniziazione alla tossicodipendenza, la dipendenza in fase avanzata è principalmente mediata da adattamenti cellulari nel giro del cingolo anteriore e nelle proiezioni glutamatergiche orbitofrontali al nucleo accumbens (Volkow, et al., 1999). La dipendenza, dunque, può essere considerata una patologia dell’attribuzione di importanza a uno stimolo predittivo della disponibilità di sostanza e di come il cervello regola le scelte comportamentali in risposta agli stimoli. Quindi la fase finale della dipendenza sarebbe caratterizzata da una eccessiva importanza motivazionale verso la ricerca della sostanza (ibidem). La plasticità patofisiologica nella trasmissione eccitatoria riduce la capacità della corteccia prefrontale di dare il via a comportamenti in risposta a gratificazioni biologiche e a fornire controllo esecutivo sulla ricerca della sostanza. Contemporaneamente la corteccia prefrontale risulta iper-reattiva rispetto allo stimolo della sostanza, che si traduce in un impulso glutamatergico sovrafisiologico nel nucleo accumbens, in cui le sinapsi eccitatorie riducono la propria capacità di regolare la neurotrasmissione. Gli adattamenti cellulari nell’innervazione glutamatergica prefrontale del nucleo accumbens favoriscono il carattere compulsivo di ricerca della sostanza nei soggetti dipendenti, diminuendo il valore delle gratificazioni naturali e il controllo cognitivo (“la scelta”), e incrementando l’impulso glutamatergico nella risposta allo stimolo associato alla sostanza (Volkow & Kalivas, 2005). La proiezione glutamatergica dalla corteccia prefrontale all’accumbens è la via comune conclusiva per elicitare la ricerca di droga. Questo locus anatomico della patologia è coerente con la disfunzione comportamentale nella dipendenza poiché alla proiezione prefrontale-accumbens vengono attribuite le proprietà della salienza motivazionale e della direzione verso comportamenti normali diretti allo scopo. Quando tuttavia lo stimolo predittivo della disponibilità della sostanza è presente vi è una profonda attivazione della corteccia prefrontale e dell’impulso glutamatergico verso il nucleo accumbens. Associato ai neuroadattamenti cellulari dell’accumbens, che rende le sinapsi eccitatorie relativamente immuni alla regolazione, l’aumentato impulso prefrontale contribuisce ampiamente alla salienza motivazionale verso stimoli associati alla droga e di conseguenza favorisce il craving e la ricerca della sostanza (Serpelloni, et al., 2010).
Come si evince da questa spiegazione neuroscientifica le correlazioni tra le tre aree biologica, ambientale e psicologica sono strettamente interconnesse. Non solo una alimenta l’altra vicendevolmente, ma anche, porta a spostare l’asse delle conseguenze su tutti e tre gli ambiti con maggiore o minore intensità di volta in volta. La riprova, forse un po’ scontata, ma che spesso viene tenuta poco in considerazione nei trattamenti delle dipendenze, è che ci sono delle connessioni tra comportamento e alterazione dei processi neurobiologici nel SN della persona affetta da dipendenze. E di rimando, l’ambiente può diventare estremamente incisivo nell’attivare meccanismi neurobiologici che inducono a craving, ricadute o devianza.
Un altro aspetto importante correlato biologicamente al comportamento che ha ripercussioni sulla vita della persona dipendente da una sostanza psicotropa (e non solo) è quella inerente alla motivazione e il decision making. La motivazione può essere astratta come ad esempio, desiderare di essere felici, o anche concreta, come il bisogno di nutrirsi quando si ha lo stomaco vuoto. Il decision making, invece, ovvero la capacità di prendere decisioni, è uno dei temi maggiormente indagati dai ricercatori vista la sua importanza in diversi ambiti della vita quotidiana (Dunn, et al., 2006). In riferimento specifico a ciò, uno tra i contributi più significativi è stato quello della Somatic Marker Hypotesis formulata da Damasio (Damasio, 1995). Questa teoria afferma che lo stato corporeo e le risposte emotive, giocano un ruolo fondamentale nel dirigere il comportamento decisionale. L’autore ipotizza che in determinate condizioni di rischio, si attiverebbero sistemi neurofisiologici che segnalerebbero la non neutralità di una determinata condizione ad altri sistemi deputati a prendere decisioni. In questo modo l’attenzione verrebbe particolarmente focalizzata su quella condizione così da poter utilizzare tutte le informazioni disponibili rilevanti per assumere una decisione. In tali situazioni il soggetto sperimenterebbe una forma di attivazione di natura emozionale che dovrebbe funzionare come segnale per il sistema che deve prendere decisioni al fine di valutare la situazione come “non neutra”, rispetto alla quale è necessario focalizzarsi su tutti gli elementi che caratterizzano la situazione in modo che la decisione da prendere tenga presente del maggior numero di elementi.
Sono stati condotti anche studi di neuroimaging che mostrano come l’insula e i gangli della base giocano un ruolo rilevante nel guidare le decisioni a lungo termine. Il lobo parietale inferiore sembra coinvolto nella valutazione delle conseguenze delle decisioni e la corteccia frontale sembra essere implicata nella correzione degli errori (Lin, et al., 2008) .Tim Shallice e Donald Norman (Shallice, 1988), per spiegare il comportamento orientato a uno scopo, hanno sviluppato un modello neuropsicologico di selezione della risposta. Questo modello postula che la selezione dell’azione sia un processo competitivo. Il nucleo di tale modello è la nozione di unità di controllo di schemi (Schema Control Units) o rappresentazioni di risposte (representations of responses). Questi schemi possono corrispondere a movimenti espliciti o all’attivazione di rappresentazioni di lunga durata che conducono a comportamenti finalizzati (ibidem).
Nel proseguire con l’analisi dei modelli neurobiologi che si correlano ai meccanismi di dipendenza si procederà ora alla rassegna della teoria che vede il comportamento come la risultante di due forze che si contrappongono: la prima denominata drive e la seconda controller. Nel primo caso siamo di fronte ad una struttura funzionale che genera spinte (sostenute da bisogni) che rientrano nei fattori determinanti comportamenti prevalentemente di tipo istintivo, pulsionale, semi-automatico; nel secondo caso, invece, fattori che rientrano più nell’ambito volontario e che sono prevalentemente costituiti da sistemi di autocontrollo fortemente modulati da incentivi o deterrenti, provenienti sia dall’esterno che dall’interno dell’individuo (Serpelloni, et al., 2010). Il controller può agire in senso inibente, ma anche promuovente di un comportamento e non deve quindi essere considerato solo come un sistema di “censura”. Il bilanciamento di queste due diverse forze (drive e controller) porta a definire la motivazione che sostiene il comportamento stesso. Nel caso del comportamento “uso di sostanze”, la motivazione all’uso può essere sostenuta da un forte drive che deriva dal craving in grado di inibire l’azione di autocontrollo (fronteggiamento) che l’individuo potrebbe esercitare tramite il controller (ibidem). La sospensione dell’uso e il deterrente derivante dallo scatenamento della sindrome d’astinenza possono, quindi, diventare anch’esse un drive per la reiterazione dell’assunzione di sostanza. La persona assume una droga, nonostante abbia sperimentato gli eventi avversi che questa provoca, quando il controller non è più in grado di svolgere il suo compito. Questo “fallimento” del controller può essere dovuto o ad una eccessiva potenza del drive, dunque a pulsioni troppo intense o ad una scarsa capacità del controller (Bricolo & Serpelloni, 2002). Quando l’individuo abusa di sostanze stupefacenti, dunque, interpretando questo comportamento nel modello sopra presentato, può significare che vi sia una bassa efficienza del controller ed un’alta efficienza del drive. La bassa efficienza del controller può essere relativa o assoluta in quanto può dipendere o da un’alta efficienza del drive non controllabile (drive ad alto potenziale) o dalla bassa efficienza del controller stesso, che non esercita inibizione o addirittura esercita promozione verso il comportamento di abuso, (controller a basso potenziale inibente) e che può essere stato generato da un ambiente fonte di stress, carente di stimoli gratificanti e con bassa capacità di generare apprendimento di comportamenti e sistemi protettivi. In termini di network neuronale la rete del drive è composta dal sistema limbico e in particolare da amigdala, nucleo accumbens e ippocampo, mentre il controller coinvolge aree corticali quali la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia orbitofrontale (ibidem). Il drive è in grado di interagire con il controller attivandolo, e, a sua volta, questa struttura è in grado di modulare il drive in un continuo bilanciamento fino alla produzione della motivazione al comportamento. Il controller si struttura nel tempo sulla base dell’influenza dell’ambiente e viene quindi condizionato dagli stimoli educativi, dai modelli culturali e di comportamento collettivo, e dalla pressione sociale del gruppo di riferimento (Serpelloni, et al., 2010). Si evince quindi che, il drive è un generatore di una motivazione, fortemente modulato dal controller, che a sua volta genera un comportamento pro o contro l’uso di sostanza, dunque un comportamento protettivo o a rischio e che a sua volta genera un incentivo o un deterrente all’uso.