Già da tempo siamo entrati nel processo di normalizzazione del consumo di droghe nella nostra società. Sdoganato in tutte le classi sociali, età ed esteso ad entrambi i sessi, l’uso di sostanze è entrato a far parte del sistema occidentale in maniera incontrovertibile. I giovani, da sempre desiderosi di provare nuove esperienze e inclini al rischio ben più che gli adulti hanno condotto il mercato alla produzione di droghe identificabili come una vera e propria cosmesi psichica da utilizzare alla bisogna per regolare la (dis)percezione dell’ambiente circostante e ottemperare alla gestione delle (in)sicurezze. Come un prontuario farmacologico, i giovani sempre più sanno come identificare la sostanza psicotropa che necessitano di volta in volta per rispondere alle loro esigenze; per costruire la loro identità relazionale, attraverso un processo di razionale mind buiding oltre a quello del body building (Rigliano, 2015). Per questo, l’adolescente diventa ciò che desidera sentirsi attraverso la sostanza, che gli dona – seppur temporaneamente – la possibilità di colmare il differenziale che c’è tra il suo Sé ed il suo Sé ideale. Pertanto con il prêt-à-porter veloce ed economico offerto dai pusher, i giovani raggiungono subitaneamente la sensazione di essere quello che non avrebbero neppure potuto immaginare di essere. Perché di più. Lo sballo è la normalizzazione della straordinarietà. La possibilità di raggiungere stati dell’essere altrimenti non tangibili, tuttavia, conduce ad una negoziazione con la sostanza necessaria a raggiungere tali stati. E questo implica un progressivo impoverimento del soggetto che consegna irrimediabilmente una parte di sé alla sostanza.
È credenza comune che la dipendenza sia qualcosa che si ha; qualcosa di appiccicato alla persona che la possiede. Tale convinzione è così insita nel pensiero condiviso che per estensione la Dipendenza diventa qualcosa che entra a far parte dell’identità della persona che ne è affetta. La dipendenza è, invece, una condizione esistenziale che ha portato un soggetto a strutturare nella sua vita una relazione tra sé e l’oggetto, da cui ricava uno stato mentale di incredibile valore. Alla base di ogni dipendenza c’è quindi sempre un rapporto tra mezzo (la sostanza) e il fine (Bateson, 1972). Quest’ultimo consiste nel trasferire un “potere” a chi ne fa utilizzo; uno stato di sé più libero, più positivo, in generale migliore che si contrappone all’idea che il soggetto dipendente ha di sé stesso. Pertanto un soggetto dipendente vive l’alterazione psichica che la sostanza di cui abusa gli provoca come una possibilità di vivere come potente, felice, non più limitato, subordinato, incapace, inadeguato, solo e ferito. Ovvero sperimenta la miglior versione di sé stesso. Per questo la sostanza diviene il veicolo che traghetta la persona in una dimensione che può essere raggiunta solo grazie ad essa, ridefinendo la possibilità di generare accettazione di sé stesso da parte del soggetto quando non vi è che quello status specifico. La relazione tra la persona e l’oggetto della sua dipendenza è descrivibile come una relazione circolare di automantenimento (Caramiello, 2003). In essa uno stato scatena l’altro, la fase down provoca quella up e ogni stimolo doloroso chiede di essere neutralizzato grazie al ritorno allo status positivo indotto dalla sostanza. Ogni tossicodipendente in realtà dipende da questo stato interiore di sé che deve essere sempre ritrovato grazie alla sostanza che è mezzo e non fine ultimo per il raggiungimento dello status. Per convesso, tutti gli status mentali che si trovano al di sotto della soglia della persona in status indotto dalla sostanza, vengono percepiti come negativi e quindi deprecabili. Quindi, l’acquisizione di senso passa attraverso l’identità alterata, che innesca in maniera circolare un desiderio di ritrovare la sensazione di massima coincidenza tra il sé anelato e sé percepito. Lo stato mentale indotto dalla sostanza è quello esperito come supremo, emblema della libertà da tutte le altre percezioni negative del sé che sono zavorra per la liberazione effettiva (Edward & Dare, 1996). La ripetizione dell’esperienza riproduce l’incantesimo come quello di una Cenerentola in grado di portare indietro le lancette dell’orologio, aumentando il desiderio di ripetere e rivivere tale sensazione il più e più a lungo possibile.
In questo modo, lo stato mentale alternativo diventa una vera e propria dissociazione che diventa tale in quanto contrapposta al resto della mente. Clinicamente si presentano condizioni di instabilità a tutti i livelli: funzionamenti dissociativi che sembrano in contrapposizione tra loro perché incompatibili gli uni agli altri come declinazione di personalità; un funzionamento della mente dicotomico nei poli del tutto o nulla, con un passaggio brusco quasi in maniera estranea al soggetto; la carenza di mentalizzazione; l’incapacità di tollerare le frustrazioni e l’insofferenza, il sapersi pensare nel futuro e l’impulsività; la reiterazione ossessiva di situazioni disfunzionali e di comportamenti dirompenti (Rigliano, 2015).
Questi comportamenti hanno come matrice il fatto che la persona nella dipendenza è sempre perdente: ogni qualvolta incontra l’oggetto, sa che solo grazie ad esso riesce ad avere accesso allo stato tanto prezioso quanto impossibile da ottenere solo con le sue forze. E più prosegue l’identificazione con l’oggetto, più sprofonda nella sua subordinazione, alienando sé stesso. La fase successiva è l’autorinnegazione di sé, che implica necessariamente la ridefinizione attraverso l’oggetto ricercandone e rinsaldandone il legame (Sissa, 1997).
Una dipendenza si instaura sempre anche attraverso una matrice sociale. Questa è organizzata secondo dinamiche specifiche che rendono possibile a certi gruppi sociali di entrare a contatto con alcune sostanze piuttosto che altre.
Si parte da un livello macrosociale in cui sono coinvolte sovrastrutture socioeconomiche, dei valori, dei significati simbolici, culturali e religiosi che determinano anche differenti classi di popolazione. Segue poi un livello microsociale in cui sono definiti gli spazi sociali in cui determinate persone vivono: ne sono esempi i quartieri, le periferie, le città ecc.
Scendendo nel profondo della matrice, troviamo in contesto sociale prossimale ovvero i gruppi di aggregazione e le subculture (Caramiello, 2003); nello specifico, questo, è anche in grado di determinare i diversi stili di vita cui un soggetto appartiene, inclusi i pattern relazionali. Esempi possono essere le bande giovanili, l’appartenenza ad un quartiere, una determinata zona dove potersi aggregare nel tempo libero ecc. Andando ulteriormente a scendere, vediamo il gruppo dei pari. Soprattutto nella componente adolescenziale, questa, rappresenta uno dei principali driver per la scelta dell’uso delle sostanze. Uno tra le principali ragioni per i quali gli adolescenti hanno assunto una sostanza psicotropa per la prima volta è infatti la necessità di provare per farsi accettare dal gruppo dei pari. Ultimo elemento della matrice sociale che influenza e determina la possibilità di sviluppare una dipendenza (ma anche che incide fortemente sui processi di disintossicazione) è la famiglia. Fonte primaria di tutti i processi di attaccamento, di crescita e di elaborazione emotiva.
Ognuno di questi strati della matrice condivide con il soggetto regole che gli permettono di sentirsi più o meno idoneo e quindi integrato. Costantemente vengono propagandati oggetti che attestano status e valore da acquisire per sentirsi parte integrante di quel livello. Come in un gioco composto da regole proprie, che vedono i livelli possedere diversi obiettivi da raggiungere per non venire eliminati. È proprio in contesti come questi, veicolati ad esempio dalla musica, che ampie fasce giovanili apprendo ad apprendere tali modelli. L’identità si forgia sulla capacità di poter acquisire immagini e ruoli vincenti e potenti, proposti via via da ogni livello della matrice sociale. Dalla famiglia ai pari, passando per il contesto sociale fino a quello macrosociale, ogni persona si sente di dover raggiungere gli obiettivi proposti dalla società stessa. Così, costantemente assoggettati da una corsa frenetica verso obiettivi imposti dall’esterno aumenta la soggezione ed il disagio oppressivo nel doverli raggiungere. Fu Parsons (Parsons, 1965) un sociologo del ‘900 a parlare per la prima volta di sovrastrutture sociali. Queste condizionerebbero inequivocabilmente ogni membro della società cui appartiene applicando ad esso meccanismi di controllo e auto-controllo che permetterebbero l’andamento stesso della società.
Per questa ragione si innesca un circuito di attivazione e paura in cui ogni soggetto sarebbe influenzato (in maniera maggiore o minore secondo ognuno) da forze che lo spingerebbero a raggiungere mete che pensa essere proprie, ma che, in realtà, altro non sono che quelle imposte dalle sovrastrutture sociali. Pertanto, appare giustificabile il ricorso all’utilizzo di sostanze che permettano al soggetto di essere ciò che desidera (o che la società desidera per lui). Questa è l’esatta declinazione dell’anelito più ricorrente in un adolescente: essere quello che gli altri vorrebbero che fossero, per farsi accettare. Essere quindi addirittura desiderabili, per piacere, per essere inclusi (Fergusson, et al., 1997). Da ciò derivano modelli che collidono con le categorie esperienziali ed interpretative che ogni soggetto vive perché, per corollario, irrealizzabili. Il sogno, quindi, si mischia alle aspettative reali, creando un differenziale tra quello che viene percepito come parte del Sé e quello che il Sé ideale dovrebbe rappresentare. La conseguenza di questo sistema di (dis)percezione genera una serie di dolorose esperienze in cui la rimozione del dolore diventa parte integrante. Perché il dolore rappresenta la ferita del fallimento, che va rimosso, di cui non si può parlare né che si può mostrare sentimentalmente. Rimosso perché stigma auto apposto che ulteriormente rappresenta il fallimento nel raggiungimento dell’obiettivo. In aggiunta a questo, si aggiunge la paura di venire scoperti nel provare dolore perché questo è visto come intollerabile, osceno, malato e inaccettabile. Segno evidente di imperfezione che va assolutamente sanato anche con farmaci adatti prima ancora di venire capito e utilizzato come risorsa per la crescita. Ecco allora che la sostanza è la valida risposta chimica pronta e socialmente accettata che allevia la sofferenza, annulla il dolore e potenzia il soggetto, il quale, può provare nuovamente la sensazione di potercela fare (Rigliano, 2015). L’imperativo è il piacere ad ogni costo: ogni fuga dalla “normalità” è osannata e magnificata perché contrapposta alla routine del fallimento e quindi alla rinuncia del fallimento. Il piacere è trasgressione normata, economicamente sostenibile e consumisticamente di tendenza. Il potenziale sbloccante della sostanza si contrappone al senso di schiavitù che il soggetto percepisce quando si sente intrappolato dal proprio sé, valutato non in grado di essere all’altezza di un sé ideal(e)izzato (Anolli, et al., 2002). Ogni dipendenza è una falsa fuga che fa ripiombare il soggetto, finito l’effetto psicotropo, in uno stato di inadeguatezza. Infatti, la sostanza non consente mediazioni, ma funge da trasporto ad una realtà differente. È la scorciatoia temporanea che fa ottenere – o meglio illude di far ottenere – un risultato che altrimenti sarebbe raggiungibile solo con tempo, fatica e impegno. «Mentre sembra che ogni tossicodipendente sia impegnato a superare i limiti della sua identità, in realtà usa le sostanze per curare un’identità che sente svalorizzata senza di esse» fallendo sempre (Rigliano, 2015). Negli adolescenti, inoltre, il raggiungimento dell’Altro-sé acquista ancora più importanza perché rappresenta un rito di passaggio sotteso all’accettazione di sé stessi. Nel classico passaggio mentale del: “se sono accettato dagli altri, allora vado bene” la scorciatoia offerta dalla sostanza acquista ancora più valore perché valorizza l’identità alternativa basata sulla sfida di sperimentare nuove capacità mentali e la pretesa di poi poterle governare attraverso gli stati interiori. Proprio tramite questo processo, molti giovani credono di effettuare un passaggio alla maturità, mentre invece accade che si chiudano dentro un sistema di valori condiviso solo con altri che, come loro, sono caduti nella stessa illusione. Per convesso, la droga, rappresenta, allora, una esibizione di potere di fronte a sé stessi e agli altri, come se fosse la risposta alla dimostrazione del raggiungimento di quel Sé anelato dal soggetto. L’adolescente che fa uso di sostanze si impegna, quindi, in relazioni in cui non vuole essere solo come, ma anche più degli altri, contrapposizione simmetrica che genera un mimetismo competitivo. Non si può vivere senza superare l’ostacolo provocatorio che l’Altro propone e che viene interiorizzato facendo ombra al proprio Sé (Scarscelli, 2003). Ogni dipendente sa di portare dentro di sé un diverso sé stesso più potente, orgoglioso e libero da ogni inquietudine. Vorrebbe raggiungerlo ad ogni costo, ma terminato l’effetto della sostanza, riappare il vecchio sé concludendo il tentativo di avvicinamento al sé ideale con una sconfitta. Pertanto, chi usa le sostanze è chi è riuscito ad esplorare gli spazi di potere e di espressione al di là del confine. Ecco perché assumere sostanze significa superare sé stessi, dotarsi di quel potere supremo che è il vero ed autentico dominio su di sé. E tanto più è duro questo confronto, tanto più il soggetto ritiene di aver attinto valore al proprio atto.
Per riassumere, quindi, potremo dire che la sostanza genera una dipendenza nel soggetto perché gli consente di fare esperienza, seppur temporaneamente, una versione del Sé che ne rappresenta la sua versione idealizzata. La dipendenza nasce nel desiderio di unione tra il Soggetto e l’oggetto della sua dipendenza, ovvero la sostanza in grado di traghettarlo nel Sé anelato. Il valore dell’assunzione rappresenta il valore del desiderio di ambire ad un Sé potente, alternativo al Sé inadeguato che l’adolescente (dis)percepisce dal confronto con gli altri. La Persona-Oggetto, è quindi l’emblema massimo di raggiungimento di un Sé perfetto, espresso nel suo massimo potenziale che si contrappone al Sé banale che normalmente il soggetto sperimenta nella sua esistenza. «La matrice sociale funziona soprattutto instaurando un decisivo apprendimento ad apprendere. Ecco perché è importante [per il tossicodipendente] l’uso di droghe leggere: esse non agevolano direttamene l’uso di droghe pesanti, non sono in sé per sé uno stimolo diretto, che determina automaticamente il passaggio a quelle pesanti. Molto più esiziale è la sperimentazione di “visione” positiva, secondo la quale si possono usare sostanze per modificare i propri stati interiori, in modi che si presumono controllati. Il pericolo risiede nel miracoloso salto qualitativo che la sperimentazione di tutte le sostanze consente, nel confine che si sposta nella disponibilità a superarlo» (Rigliano, 2015).
Tuttavia, i molteplici livelli della matrice possono essere cruciali tanto nel mantenere il legame persona-oggetto quanto contribuire alla sua rottura. Questo perché alcuni processi sociali possono generare circoli virtuosi che portano il soggetto a rivedere la sua relazione con l’oggetto. E questo accade ancor più quando il soggetto riconosce che il sé alternativo è falso, negativo, non mantiene più le promesse di sollievo, stampella o cura. Quando l’individuo sottrae il valore allo stato mentale che gli produce la sostanza, perché non sperimenta più la superiorità rispetto allo stato privo di sostanza, allora avviene il cambiamento. Infatti, al di là della rappresentazione manipolatoria e deresponsabilizzante che il tossicomane offre di sé, egli sa benissimo che il problema non sta nell’oggetto, ma dentro sé stesso. Egli vuole raggiungere uno stato interiore più positivo che solo assumendo la sostanza può raggiungere (Fanella, 2010).
L’azione principale terapeutica che va effettuata è quella della contestazione del dolore. Bisogna capire perché il soggetto ha dato di sé l’interpretazione errata non tanto nei singoli costituenti, quanto nelle connessioni, nelle valutazioni e nelle decisioni che il soggetto vi fa scaturire. In ogni processo terapeutico, quindi, il tossicodipendente stesso deve chiedersi se e come concretizzare dentro di sé quelle qualità psichiche che la sostanza gli consente e realizzare l’inganno e il danno che essa gli procura lasciandolo, peraltro, ancora più inerme di prima. Per fare questo c’è bisogno di un metodo, di tempi e soprattutto di regole. Il confronto critico con il dolore è il punto fondamentale di ogni progetto terapeutico. Il sofferente infatti è deterministicamente indotto ad essere agire e pensare solo in maniera passiva e imponente. Il tossicomane crede che questo sia l’unico modo di essere e che quindi egli sia giustificato e legittimato di essere inchiodato alla sua condizione. Questa visione autocommiserativa e vittimaria si contrappone a quella invece necessaria ad attuare il cambiamento. I consumatori di sostanze si illudono di praticare un’auto-pedagogia e una ricerca dell’autonomia tramite le cose che dicono di sé e che fanno vedere agli altri, che servono prima di tutto al loro stessi e che sono comunque sempre all’interno di una valutazione dispercepita. La sofferenza non può essere l’unica ideologia per cui il soggetto tossicomane sarebbe solo vittima impotente alla mercé delle droghe e quindi privo di ogni libertà e responsabilità (Caretti & La Barbera, 2005).
Tre sono le condizioni indispensabili affinché il terapeuta possa condividere il senso di sofferenza con ogni tossicodipendente. La prima è ricostruire i contesti di vita affettivamente significativi per il soggetto. La seconda ricostruire eventi, scelte e relazioni per come li hanno interpretati i soggetti che li hanno vissuti; soprattutto quando si presentano delle ciclicità nei modi disfunzionali di vivere la relazione. La terza condizione è ricostruire i modi e i significati che il soggetto ha dato a sé stesso e alle relazioni. Queste tre condizioni convergono nel principio terapeutico fondamentale: la ricostruzione dell’interpretazione e della valutazione di sé che il soggetto ha maturato nel corso delle sue vicissitudini e quindi come si è percepito, come si è giudicato e quale progettualità si è assegnato; ovvero quali decisioni di realizzazione personale ha intrapreso. Solo in questo modo il clinico potrà effettuare quella che potrebbe definirsi l’ermeneutica della sofferenza dando voce e valore al dolore del soggetto affinché questa sofferenza possa estinguersi e essere utilizzata come trampolino di lancio alla riedificazione del sé (Rigliano, 2015).
Quello che terapeuticamente va spezzato è il perimetro circolare in cui il soggetto tossicodipendente va a costruire una propria forma mentale, giacché è come se fosse in un circuito che si avvita continuamente su sé stesso e su cui si sente costretto a muoversi incessantemente perché ogni elemento richiama il successivo.
La dinamica di ogni relazione di dipendenza e circolare perché l’azione dell’oggetto finisce e non può essere posseduta indefinitivamente, così, il soggetto è costretto a ripercorrere continuamente la strada che dalla ricerca dell’oggetto porta al cambiamento desiderato di sé. Questa circolarità è poi anche centrifuga perché è più stringente e vorticosa tanto più che il soggetto la proietta all’esterno. La persona dipendente si proietta all’esterno verso piani superficiali dell’essere, proprio con l’intento di allontanarsi dai nuclei più profondi del suo essere che sono anche quelli che sostanziano la sua sofferenza. Tanto più la persona è schiacciata verso livelli superficiali di comportamento, tanto più si identifica con la ripetitività tossicomanica che gli serve per garantirsi il mezzo per realizzare un diverso sé stesso (Scarscelli, 2003).
Il craving è definibile proprio come la tensione a colmare la differenza tra lo stato privo di droga e quello doppio da essa creato. Questo differenziale mentale ed emotivo scatena una tensione dolorosa dovuta al confronto drammatico tra i due stati che l’individuo produce dentro di sé. È questa la differenza che il soggetto vuole abbattere perché richiama alla sua auto consapevolezza.
La dipendenza diviene, quindi, quella discrepanza insanabile, ma che va sanata a tutti costi perché intollerabile, che il soggetto dipendente ricerca costantemente. Nel craving si scontrano i due stati mentali alternativi: da una parte quello drogato che è diventato memoria estremamente attiva nella mente del soggetto, dall’altro le aspettative positive rispetto allo stato di sé. Così sopraggiunge la frenesia e l’angoscia di non avere strumenti alternativi e se non quelli di una fuga efficace data dalla sostanza rispetto ad altre soluzioni che non sembrano altrettanto efficaci o che sono comunque molto più lente e meno immediate e potenti. Quanto più l’individuo si è impegnato a raggiungere questo obiettivo mancato, tanto più si giudicherà privo di capacità e quindi ridurrà l’impegno nel compito ricostruttivo andando a compromettere la sua autostima in quello che viene definito self handicapping (Caretti & La Barbera, 2010).
Il tossicomane realizza così che solo la sostanza gli assicura il tanto desiderato stato mentale ricercato e quando non è sotto l’effetto psicotropo rientra in caratteristiche fenomenologiche tipiche e assoggettabili a tutti i tossicodipendenti. Ovvero la furbizia, la seduttività, la furbizia, la manipolatività, la de responsabilizzazione e il far mostra di essere spinti da una forza irresistibile che li rende impotenti, ma soprattutto bugiardi. E questo con l’unica finalità di mantenere la strada che porta all’obiettivo inderogabile del sé immaginato.
Un ruolo determinante all’interno della tossicodipendenza è senza dubbio data dalle emozioni e la delusione. Proprio perché il soggetto sa che non ha raggiunto il suo scopo si sente un fallito e soffre per la perdita di autostima. La delusione del tossicomane riguarda la storia, non il momento che vede un’insanabile contraddizione tra aspettativa soddisfatta nel brevissimo momento e le aspettative di mantenimento duraturo dello stato positivo di sé. Infatti, la tossicodipendenza è la perversione della speranza che il tossicomane mantiene sempre attiva relativamente all’aspettativa di realizzare lo stato desiderato in modo permanente. Ne consegue uno svilimento che deriva dal fatto che il tossicomane si scopre inerme di fronte al suo stesso fallimento con una violenta perdita di autostima.
Insieme la sofferenza vi è, inoltre, la frustrazione, in quanto maggiore è l’investimento fatto per raggiungere un se migliore, tanto più il suo mancato raggiungimento fa soffrire. È la logica del tutto-o-niente che la dipendenza scatena e perché creata dalla infinita ripetizione del passaggio da un intollerabile al-di-qua del limite ad un immaginario al-di-là dello stesso. Proprio la mancata considerazione di questi limiti ha un effetto diretto sul sé del tossicomane, producendo un’ipertrofia e uno sconfinamento dell’Io che gli impediscono di conoscersi realmente e aumentano l’esposizione agli stimoli dolorosi. Egli vede minacciata la propria sicurezza e paralizzati i propri desideri a causa della sofferenza, così l’immaginazione (le bugie) interviene a compensare il disvalore e a ricostruire l’equilibrio stravolto. È per questo che l’esperienza drogatastica torna essere per il tossicomane l’unica in grado di offrire e la compensazione causando le così dette ricadute (Rigliano, 2015).