Il rapporto tra il tossicodipendente e il terapeuta comporta due strategie principali che devono convergere: da una parte un confronto schietto e diretto che deve far saltare le maschere e le tattiche tossicomaniche; dall’altra il lavoro con l’incapacità con la quale si misura il tossicomane che scaturisce nell’aggressività, la fuga, l’auto-boicottaggio e che, soprattutto, scaturisce sempre nella consueta profezia che si autoavvera. Inoltre, da parte del terapeuta deve esserci un continuo confrontarsi con il vuoto che c’è dentro il tossicomane che ha vissuto i rapporti familiari come una mancanza, una distanza, un disinteresse e ne ha fatto derivare l’impossibilità di acquisire un valore autonomo per sé. Il tossicomane, infatti, sa che lui non ha saputo valorizzarsi e questo, quindi, lo fa sentire imponente e fallito tanto da riversare grandi aspettative e appigli sul supporto terapeutico. E il supporto deve basarsi proprio oppositamente a queste premesse. Va compreso il dolore della persona e ribaltati tutti i significati stereotipati che il tossicomane attribuisce a sé stesso (Rigliano, 2015). Gli va indicato il ruolo avuto in tutte le relazioni disfunzionali a cui ha partecipato e partecipa. Spetta al terapeuta rimandare costantemente un’immagine di integrità, capacità e libertà. Questa è la principale arma e strategia che blocca il circuito autocommiserativo e autodenigratorio e che fa emergere, per contrasto, le vere radici della sofferenza. Da questo punto possono essere ricostruite tutte le dinamiche generatrici di sofferenza e ogni anello della catena può essere spezzato.
A discapito di quello che si crede nel rapporto psicoterapico con il paziente, il terapeuta deve poter costituire un contesto di prova e di errori. Ma è proprio la sperimentazione di nuove costruzioni di realtà che obbliga il tossicomane ad abbandonare il solco cognitivo e comportamentale che si era sempre scavato. Quello in cui il terapeuta deve ampiamente lavorare è il mostrare alla persona che il suo problema principale è generato dalla paura di esporsi e fallire. Visualizzando le molteplici scelte possibili e guidato dal terapeuta come un funambolo, il tossicomane deve procedere con piccoli passi che lo conducano ad una nuova visione di sé stesso. Il terapeuta deve inoltre attribuire al tossicomane potere e responsabilità e, perché no, anche utilizzando strategie quali l’ironia e l’ammissione di importanza rispetto ad alcune situazioni, così da dover necessariamente lasciare il paziente nelle condizioni di dovercela fare da solo. In aggiunta, il terapeuta deve sottolineare ogni atto e ogni scelta come di totale discrezionalità da parte del tossicomane (L’Abate, 2000). Questa sua continua rappresentazione tra interiorità e confronto con il terapeuta pone il tossicomane di fronte a una scelta. Sono proprio le scelte, infatti, lì a testimoniare al paziente di potersi attribuire un senso più positivo soprattutto quando queste conducono ad una ridefinizione del sé. E in questo modo la mancanza di valore, la paura nell’incontrare gli altri, di essere giudicato male, di non saper valutare gli altri e sé stesso o non sapere entrare in uno scambio disinvolto con l’Altro, inizia a venire meno e le recelcitranze possono essere contestate dal terapeuta dopo che queste sono state comprese. È così che il tossicodipendente sviluppa un sé qualificante e i contesti che convalidano lo svilimento su cui si è impiantata la droga – con le sue capacità lenitive e distruttive – inizia a non essere più necessaria (Rigliano, 2015).
Per quanto concerne le tempistiche, il terapeuta deve garantire il supporto per un lungo periodo di tempo perché tanto è necessario per riconsolidare una nuova immagine di sé. Il supporto deve continuare almeno fino a un anno dopo la dismissione dell’assunzione di droga e continuare per molto tempo anche dopo che sia stata curata la struttura psicopatologica. Il terapeuta è e deve rimanere sempre il punto di riferimento in questo accompagnamento, fungere da memoria storica di quella sofferenza a cui il tossicodipendente potrebbe sempre ritornare. È quindi fuorviante pensare che si debba lasciare ampio margine discrezionale ai tentativi di autonomizzazione della persona; soprauttto inizialmente. Giacché vi sono già ampiamente le droghe a rispondere efficacemente agli eventi vissuti negativamente e al vuoto, tanto che il vero sforzo è far sì che l’individuo ricorra ad un (auto)supporto che non lo faccia incappare in questo tipo di risposta, ma che lo metta nelle condizioni di trovare una soluzione attingendo unicamente alle sue risorse personali. Ne è riprova, nella grande maggioranza dei tossicomani che avvia un percorso terapeutico, la ricaduta (Consoli & Frossi, 2014).
Tuttavia, intraprendere un supporto individuale non deve mai comportare la deresponsabilizzazione da parte del soggetto o del contesto in cui vive, facendo riferimento in questo caso particolare al coinvolgimento familiare. Nelle dinamiche familiari, lo sforzo del terapeuta deve essere quello di attribuire poteri e responsabilità al tossicodipendente perché non tiri fuori in lui il consueto alibi che lo spinge all’autocommiserazione. I commenti fanno spesso riferimento al fatto che, il tossicomane, lamenta che in famiglie altamente disfunzionali come la propria, non lo si deve biasimare per aver scelto di drogarsi. Tramite questo volano, attribuendo ed istituendo legami causali tra la situazione in cui si trova e le sue scelte, il tossicomane è spinto a riproporre dell’utilizzo della sostanza psicoattiva. Pertanto, diviene imperativo del terapeuta disinnescare questo tipo di meccanismo.
Anche dopo molto tempo il ruolo del terapeuta è quello sempre di verificare se, come e fin dove l’ex tossicodipendente ha interpretato correttamente la sofferenza sua e degli altri che gli sono significativi e se, ora, riesce a leggere le storie degli altri rispettando sia la loro complessità che la propria (Selvini Palazzoli, et al., 1988).
Durante un percorso terapeutico con il tossicomane il terapeuta si troverà sempre di fronte ad un momento in cui andrà gestita ed affrontata la radice del desiderio da parte del paziente di assumere nuovamente la sostanza. In questo caso vanno capite prima di tutto le motivazioni del desiderio. Quali sono i rinforzi ai fattori scatenanti. Successivamente bisogna conoscere quali sono le strategie anche il desiderio attua per potersi realizzare, quindi cosa il tossicomane dice o fa per giustificare le sue azioni. Quindi bisogna insegnare tecniche pratiche che permettano di controllare il desiderio e soprattutto la sensazione di necessità. Queste possono verificarsi attraverso una rieducazione alle emozioni, portando il paziente a comprendere che il desiderio va trattato come un intruso da cui difendersi. Successivamente bisogna normalizzare e contestare il desiderio, accettandolo come una delle evenienze necessarie a cui si può andare incontro quando ci si distacca dalla sostanza. Anzi, ogni riuscita del superamento del desiderio, ogni no detto, è un mattone in grado di costruire una fortezza basata sulla propria forza di volontà. Il concetto che il terapeuta deve far passare al tossicomane è che il desiderio va combattuto e non evitato (Rigliano, 2015). Combattuto attivamente, duramente e fattivamente con un modello di pensiero positivo e alternativo a quello tossicomanico. Ci si deve concentrare su tutti i singoli momenti del desiderio e destrutturarlo. Il paziente deve così iniziare a sentirsi potente, in grado di autocontrollarsi ed in grado di gestire la sua vita avvicinandosi anche quel modello di sé che aveva sempre desiderato.
Tra gli errori da evitare da parte del terapeuta vi è sicuramente quello di usare una logica tossicomanica. Ovvero una logica basata sulla credenza di una soluzione magica, sulla risposta sempre potente e in grado di risolvere il problema velocemente e facilmente. Ed infine abbandonare un tossicodipendente. Questo gli darà la conferma tristissima che sono la droga gli è fedele, che è un’assidua compagna nei momenti di solitudine. E che vince sempre.
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